giovedì 27 settembre 2012

Cos'è Trieste.


Ecco, mi sono accorta di aver detto di amare Trieste, ma non ho mai specificato come. Che i 'come' sono lunghi.

Trieste non è ciò che vedo, ma la vita che faccio.
La mia, di Trieste, non è fatta di bei palazzi, mare, violini, bar, e parchi e bora.
La mia Trieste inizialmente era quella dei miei zii. Gli stessi che mi stanno ospitando, ora, nella loro casa tipicamente triestina. Lunghe finestre, bel parquet, porte a vetri che qui è sempre tutto buio. La loro casa che è tipicamente mia. Disordinata, accogliente, scassata, vera.

La mia prima Trieste è stata 'Il posto delle fragole'. Un bar nell'ex ospedale psichiatrico, quello di Basaglia, quello delle lotte per i diritti dei 'picchiatelli'. Ora ci dormono i pazienti, c'è un liceo e una facoltà universitaria.  E' tutto immerso in grande parco. E' in alto. Nessun suono della città arriva qui.
Mi ricordo di quando ordinammo un gelato, e vennero a sorriderci i volontari. E poi arrivò una signora, che borbottando qualcosa ci buttò sul tavolo una monetina e si prese la Coca Cola di mia zia senza chiedere nulla. La bevve fino all'ultimo, poi posò il bicchiere, si asciugò la bocca con la manica consumata del suo maglione e si appoggiò al muro di fronte. Quando mia zia le volle ridare i soldi si mise ad urlare talmente forte che dovettero portarla via.
E poi arrivò un vecchio signore. Doveva essere bello, decenni fa. Vestito di tutto punto, non parlava, mi guardò e si portò due dita alle labbra. Il gesto di una sigaretta. Io gli porsi le mie MS bianche di allora. Lui ne prese una, e si prese anche il mio accendino, mentre intanto si sedeva vicino a me. I suoi occhi erano persi, io li vedevo, li vedevo che non c'erano, non erano più lì. Che erano come dei lunghissimi pozzi neri prosciugati dalla malattia. Però, dopo la prima boccata, guardò la sigaretta, poi guardò me, e poi tolse il filtro. Io sorrisi, ne presi un'altra, spezzai anch'io il filtro, e la fumai con lui. Mi sembrava di comunicare con la  cenere e i sospiri. Stette mezz'ora al tavolo, continuando a fumare una sigaretta dopo l'altra, chiedendomene sempre di più e sempre con lo stesso gesto, e io feci altrettanto. Poi spense l'ultima. E io dovevo andare. Ma lui mi toccò il braccio, e cominciò a biascicare qualcosa, incatenandomi ai suoi occhi. Io non capivo, non riuscivo, non potevo sapere. Allora lui si levò la scarpa, mi mostrò il suo calzino grigio toccandosi una caviglia, continuando a borbottare. E io dovevo andare. Cercavo di chiedere, di sapere. Ma io dovevo andare. Lo lasciai lì con quel piede sulla sedia, maledicendomi.
Il giorno dopo tornai alla stessa ora. Solo per lui. Ordinai da bere, rimasi per un po'. Ma lui non arrivò mai. Non lo rividi mai più.
In un silenzio profondo e onirico cominciai a sentire una voce. Degli urli. "Il giudizio universale arriverà, e tutti voi ne sarete investiti con la forza che Dio nostro Signore scatenerà sulla Terra". E io questa voce la seguii. Mi portò ad una piccola chiesa a pochi passi dal bar, ma tutto era già finito. Quando vi entrai dentro mi accorsi che non c'era più nessuno. In quell'esatto momento seppi che quella città sarebbe stata il mio posto, per un po'. Sono passati due anni.

La Trieste di prima mi ha fatto conoscere il famoso scrittore Pino e la pazza Antonella. Lessi tutti i suoi libri, conobbi l'alcolismo, la prigione di lui, di lei conobbi le prime allucinazioni a New York, il tentato suicidio, la reclusione nei manicomi americani e il bipolarismo. Andavo nella loro immensa casa, assistevo a delle prove teatrali. La prima volta piansi, mentre vedevo mio zio fingere d'essere un alcolizzato, mia zia una pazza. A fine prove mi pregarono di suonare. Io suonai, e Pino mi disse "ora fai parte della compagnia instabile. Verrai con noi al nostro prossimo spettacolo". Io tornai a Roma. Poi mi chiamò "Pronta per andare?"
Andammo a Gessopalena, in Abruzzo, e davanti a cinquecento persone condividemmo un'emozione che io non provai mai più.

La Trieste di oggi mi porta al Sert. A Volere Volare, il giornale di strada dei ragazzi con problemi di tossicodipendenza e non. Ascolto le loro storie, i loro scritti. Mi odio per non riuscire a staccare i miei occhi dai loro, a spillo, o dalle loro vene. Io parlo poco, meno del solito, stordita dalle loro genialità stilistiche. E io sarei qui per dare consigli di scrittura? Meglio che prenda appunti.
Meglio che prenda appunti da mio zio, che ha cominciato a scrivere anche lui ed è bravo. Lui non sa che io so, non sa che quando porta una maglietta a maniche corte riconosco il suo passato fatto di sostanza e dolori, in quelle braccia. Non sa che quando mi legge pezzi del suo libro riconosco ogni volta pezzi della sua storia. E ho un sussulto, sempre.
Oggi ad Androna leggevamo degli articoli sul Piacere. Monica è pazza e ha degli occhi giganteschi e tondi. Monica è profondissima. Paragona il suo piacere ad una pentola a pressione. Lei dice di amare le donne e che si sente un uomo. Ma non vuole cambiare sesso. E allora si piega verso di me, stringendo le spalle e serrando le mani in un modo innaturalissimo, e mi sussurra all'orecchio che quando le chiedono il perchè lei risponde che ama troppo Lady Oscar per fargli una carognata del genere. Ride, rido anch'io.

La mia Trieste mi parla di articoli, capitoli. Ma sono articoli e capitoli di vita. E allora sì, che diventa bello scrivere, perchè ogni volta ti sembra di scrivere la tua storia, il tuo destino, i tuoi passi.
La Trieste di domani pomeriggio mi porterà a conoscere due importanti traduttrici. Di quelle che Shakespeare, Beckett e la Woolf sono il loro pane quotidiano. La Trieste di domani mi porterà una piccola traduzione futura, la mia. Uno spettacolo che avrà una piccola voce futura, la mia.

La mia Trieste è ciò che faccio. Ciò che vivo ogni giorno e imparo dalle persone. Cose che non ho mai fatto, nè sentito. Ho il cuore che si apre, in questa città. Lo stomaco, la testa gli occhi. E' tutto aperto, spalancato. Qui c'è tutto quello che mi serve ora. Ora, adesso, io non ho bisogno di altro.

Storie.
Trieste è la mia storia.

sabato 22 settembre 2012

Tutte le strade portano a Roma.


Ieri sera c'è stata una piccola festa in mio onore per la mia partenza. Una scusa per rivederci, dopo mesi.
Lì, il mio amico più divertente. Uno dei tanti che non ha capito un cazzo della vita. Che vuole fare il medico, e che alza gli occhi al cielo quando io lo prendo da parte e con enutsiasmo gli racconto il suo destino secondo le mie visioni. Gli racconto dei suoi studi in una scuola di recitazione qui a Roma, del fatto che un giorno me lo sono immaginato lì, fra il pubblico di Zelig. Ho immaginato che per qualche assurdo motivo l'avrebbero chiamato sul palco, e lui avrebbe intrattenuto la folla investendola di una forza positiva e comica e pura. La stessa che ogni volta ci portava a passare le ricreazioni insieme a lui. Perchè lui era una cura, ci distraeva.
Lui mi chiede perchè odi così Roma. Mi dice che dev'esserci almeno qualcosa di questa città che mi piace. Qualcosa di bello.

Io penso di sì, c'è qualcosa. Ma non è qualcosa di bello. Penso che mi piace Roma di notte. O meglio, guidare a Roma di notte. I miei viaggi dentro la città lunghi metà serbatoio. Di quelli che non sempre hanno una meta. La decadenza, quella patetica e destabilizzante della periferia ad est. Il buio e i suoi palazzi che sono brutti. Veramente brutti. E in quei momenti capisco perchè non ci sia luce. Sento di essermi abituata a quella bruttezza, perchè è casa, in un certo senso. Sento continui rigurgiti di sconforto e mi convinco sempre più che m'abbia fatto bene, la periferia. Che già così io sono troppo morbida. Che probabilemente vivendo al centro sarei stata una persona orrenda, tanto quanto Rebibbia e Montesacro e Pietralata e Talenti e Sempione e Ponte Mammolo. Invece l'orrore adesso ce l'ho solo tutto intorno, e conservo quel piccolo orgoglio tipico di chi vive in borgata. Un orgoglio ignorante che non rivelo mai a nessuno, nemmeno a me stessa, perchè non è mio, è di tutta la gente che trascorre la propria passiva esistenza in queste limitanti distese di cemento e piattume. In macchina mi infilo nei loro vicoli, e mi perdo sempre. Io le strade della mia zona non le conosco.
Ma conservavo comunque quell'orgoglio un po' criminale e malandrino, che a quindici anni mi divertivo ad ostentare al liceo. Che io, il liceo, me lo scelsi al centro. Sì, il vero orgoglio in realtà non c'è, non ce l'ha nessuno, in borgata.
"Qui piove? A Rebibbia no. Rebibbia ha un tempo a parte. Non ci credi? Sfido. Rebibbia è come un paesino, lo vedi, con la sua via principale, lunga e stretta, la sua Chiesa, il suo carcere, le sue case popolari, i suoi bar, le sue palestre, tutto concentrato sulla Casal de' Pazzi. Le nostre comitive, i nostri spacci, i nostri pestaggi ed accoltellamenti, i nostri ladri, tossici, pedofili, i nostri zingari ai quali abbiamo bruciato i loro accampamaenti, e i retaggi della polizia, e gli amici agli arresti domiciliari e gli orari dei pusher e la rivalità con Inacasa e San Basilio. E il nostro clima. Oggi a Rebibbia c'è il sole. No, è inutile che fai quella faccia. Non sono io a prenderti per il culo. E' Rebibbia che prende per il culo Roma intera." Portavo una sigaretta alle labbra, inspiravo, e poi buttavo il fumo in faccia al malcapitato. Poi ridevo amaramente con G.

Vendevamo storie che poi ritrovai in alcuni angoli disperati di Napoli. Storie mirabolanti e catturaorecchie che si raccontano solo quando non è rimasto nient'altro da raccontare, perchè non c'è mai stato nient'altro. Storie che piacciono tantissimo, storie che trasudano tristezza e vuoto. Che la decadenza di quegli angoli si trasmette come un virus alle persone che vi abitano. L'altro giorno passavano 'Una vita violenta' in tv. Un altro moto d'orgoglio irrazionale, nel vedere le mie zone vecchie di cinquant'anni. Nel sapere già che quella storia non finirà bene, perchè si sà che qui la speranza non c'è.

L'altra notte ci sono passata, davanti al mio liceo. Che quando ti infili in via Carlo Alberto, la Basilica di Santa Maria Maggiore ti aggredisce coi suoi pugni di marmo. E quella luce, quella dannata luce artificiale che la rende ancora più maestosa e paurosa. Una calamita, che mi ha portata a girarci intorno, a rollare una sigaretta in via dell'Olmata, appoggiata al portone della scuola, senza mai guardare le mie dita, con lo sguardo verso la chiesa. In quanti modi diversa l'ho vista, per cinque anni. Eppure, in realtà non l'ho mai vista, nelle mie corse, fra i turisti, in mezzo alla pioggia. Nemmeno in quel momento mi pareva di vederla sul serio.
Mi viene voglia di correre, in quei momenti. E così in due minuti imbocco Piazza dei Cinquecento, che ogni tanto viene illuminata di verde o di rosso.E ancora una volta ci passo intorno, e riprendo Via Cavour, piena di ricordi di baci, ripetizioni, e gelati siciliani sparsi nella Suburra, e arrivo al Colosseo. La mia guida del tutto inesperta si fa spericolata e pericolosa. Ci vuole di più, ci vuole qualcosa che faccia ancora più male. Come la Cristoforo Colombo, come via del porto fluviale. Come quel ponte stretto stretto ed industriale e metallico e pieno di buche da percorrere a 30 km/h, e che io non rispetto, perchè non ho il senso della misura, nè della distanza, e mi butto sempre al centro occupando le due corsie, e quando mi vedo arrivare un furgone sterzo violentemente, abbagliata dai suoi fari, sperando di non toccare il marciapiede. Ma non rallento mai.
In quelle notti, se c'è la musica giusta, tutto diventa giusto. Ogni volta che programmo di tornare verso casa uno strano entusiasmo mi pervade. Perchè so che quelle ruote sotto di me troveranno delle soddisfazioni sull'asfalto della Tiburtina. Perchè la Tiburtina è la via più bella da percorrere, quando è notte inoltrata. Perchè la Tiburtina è una delle vie principali di Roma, una di quelle che collega tutto tutto tutto, ma al contrario delle altre conserva ancora una familiarità, una personalità che non si trova facilmente nelle altre, che sembrano concepite e adattate solo per la corsa.
E così il pedale s'abbassa, e io mi godo il gelo del vento. Certe volte non ho voglia di svoltare per la Casal De' Pazzi. Così continuo. Arrivo fino a Villalba. Anche la zona in cui vive mia nonna si affaccia sulla Tiburtina. E' bello, mi piace, mi sembra di vivere in parallelo con lei. Penso che se in linea d'aria percorressi quella distanza in un'unica retta, equidistante dalla grande via romana, mi ritroverei nel suo salone. Quando arrivo lì, sotto casa sua, mi fermo. Ma certe volte nemmeno scendo. Ricomincio quasi subito il mio viaggio per il ritorno, osservando le industrie, i magazzini, le puttane. Eppure non trovo mai una notte abbastanza ispirata, una notte che mi dia il coraggio di fermarmi da loro e parlare.

Questo di Roma mi piace, sì. Ma non del tutto. Nascono ogni volta, in me, sempre le stesse domande. "Come può esserci così poca gente in giro? Come fanno a non accorgersi che è questo il momento da vivere? Possibile che nessuno veda ciò che vedo io?" E allora mi ricordo che ogni città, ogni quartiere, ogni zona, ti mette addosso il suo carattere. E penso che Roma il suo, di carattere non me l'abbia dato, al contrario degli altri. Ancora una volta con Roma, io non sento contatti.

Stanotte, e proprio ora, le mie finestre sono aperte. In uno dei vecchi casali del Parco d'Aguzzano stanno suonando delle tarantelle. Hanno fatto un buon lavoro, con quei casali. Hanno trasformato una vecchia e grande stalla in una biblioteca. Certe volte andavo a studiare lì, immersa nel verde.

Sì, mi piace questa musica. Ma ecco, il bello di Roma sono i suoi ricordi, i ricordi che ti dà. Quei casali occupati dalle famiglie di vecchi amici o da stranieri dell'est, il blitz, lo sgombero da parte della polizia. E via, tutti per strada. E poi le porte e le finestre murate, e poi mesi dopo la disperazione di altri, e altre occupazioni. E le lotte perchè non fossero assegnate al carcere. Eccola, la bellezza, ora. Ma quale cazzo di bellezza? E' un incubo costante. Ogni volta il malessere del quartiere si fa sentire. Come una maledizione, avvolge sempre tutto, anche il fiore più spettacolare.

(Ora stanno suonando Gli anarchici di Leo Ferré. Eh, chiunque non viva qua ci cascherebbe, si lascerebbe abbindolare da questa piccola speranza. Che non ci siano solo spacci e vite violente.)

Sì, mi piace proprio questa musica.
Anche due settimane fa avevano organizzato un piccolo concerto privato. Un folto numero di ragazzi e ragazze si erano raggruppati la notte prima dell'apertura delle scuole. Io ero sveglia, ascoltavo quella musica, mentre scrivevo qualcosa. Alle due di notte cominciarono le urla, gli strilli. Io ho chiuso gli occhi e c'ho fumato una sigaretta, nel buio, sopra a quegli strilli. Rassegnata, proprio come una vera ragazza di borgata, che sa come vanno le cose, lì da lei.
Che tanto lo sapevo, quei ragazzi, i fascisti li stavano massacrando.

Io ci provo, a pensare a ciò che mi piace. Ma, purtroppo, è vero ciò che dice quel proverbio.
Tutte le strade portano a Roma.

Tutte le rassegnazioni portano a Roma.

lunedì 17 settembre 2012

Ssssh.


E' tornato. Dopo anni.
E' stato sempre con me. Per anni.
Mi ha cresciuta, mi ha dato la sua forma abbracciandomi, mi ha baciato. Ha aspirato un soffio dentro di me, non me l'ha più ridato. Quel soffio me l'ha tolto dalla gola, scaldando la laringe, raffreddando i suoi muscoli.
Mi ha mordicchiato le orecchie, rendendomi sorda. Mi ha accarezzato la fronte, azzerando meccanismi e ricordi, instillando della concentrazione.
Ha incrociato le sue mani con le mie, ha trasferito magie dalle sue unghie alle mie. Io grazie a lui, con queste mani ho fatto delle belle cose.

Poi mi ha lasciato. Se n'è andato e mi ha lasciata sola, con le sue benedizioni. Senza foglietti illustrativi. Senza poter leggere quella lista infinita di effetti collaterali.
E allora io rimanevo con lui tutto dentro di me, e nulla di lui tutt'intorno. E non era più come prima, ed era spaventoso.
Non può funzionare così. Non si è pronti a cose del genere.

Ma ora. Ora è diverso. Ora non ho paura di niente. Perchè lo so che non c'è niente da cercare, intorno. Il mondo è una piccola scatola vuota. Quella finta dignità che mascherava orgoglio l'ho buttata via. Probabilmente il suo passaggio negli anni della formazione lasceranno sempre delle orme nel mio modo di parlare ed esprimermi, ma non nel mio modo di volere ed ottenere le cose. Di ottenere lui.

Ho trovato i suoi indirizzi. I posti che frequenta.
E io una notte che mi è parso di sentirlo, l'ho seguito.
Mi sono messa addosso la mia Opel, non ho acceso la radio. Ho abbassato il finestrino, cercando il primo vento freddo di settembre.
E l'ho visto. Come in un flash. Da viale dell'università, salendo verso gli archi di Termini. Quella luce che li irradia, i pioppi a disegnare i confini di una larga distesa di cemento. Era bellissimo. Lo rincorrevo di spalle. Lui si è accorto di me, si è girato, mi ha guardata negli occhi. Una scintilla mi ha trafitto il cuore.

"Tu. Tu sei l'unico in grado di farmi piangere per Roma. Tu sei l'unico dal quale mi lascerò picchiare ed accarezzare sempre. Tu mi hai lasciata. E io ti sto lasciando. Ma io ora, qui, davanti a queste luci, dietro a questo muro di treni, io ti supplico di non abbandonarmi. Vieni con me. Tu lo puoi fare. Sbagliai, e lo sai. Ti ho frainteso in tutti questi anni. Ho provato a maledirti quando ancora eravamo vicini, e tu m'hai fatto male. Me l'hai fatta pagare, e io ho superato tutte le tue prove.
E ora io ti merito. Non importa con chi tu sia. Io sarò sempre la tua amante, io ti dividerò sempre con altri ed altre, ma sarai solo mio. Io sarò tua e di nessun altro."

Lui non pronuncia nulla, come sempre. La sua mano è sulla mia guancia, il suo vento mi sussurra che non litigheremo più. Che verrà a Trieste con me.
Si volta. Scompare dentro ad un angolo di buio.  Scompare in un suono di clacson prolungato. Una macchina dietro di me. Ed io mi ritrovo ferma in mezzo alla strada.
Spingo sull'acceleratore e continuo a cercarlo.

Lo ritrovo dopo ore. In una stanza. Mentre ero sdraiata a letto, mentre ero stanca, perchè la notte non s'era arrestata un attimo. Mi ha parlato in ogni istante, mi ha buttato addosso flussi di parole inconstrastabili.
L'armosfera si inonda di un argento fresco. La finestra si lascia guardare, ma non oltre. Una cornice di un quadro, un quadro dorato. Non c'è profondità. Non c'è un fuori. Fuori non c'è nulla.
La mattina arriva, e la notte smette di parlare all'improvviso. Ma io non me ne accorgo, cullata dall'odore di una pelle. Lui. In quel corpo, in quelle spalle sulle quali poso le mie labbra, in quella schiena dentro la quale nascondo gli occhi. Sulle mie mani avverto dopo tanto tempo quella magia che mi aveva stregata. Un marmo liscio e caldo mi riporta alle nostre mani intrecciate di secoli fa.
Tutto sembra immobile. Mi sembra di essere dentro una goccia di rugiada. La testa è leggera, e dentro di lei lui mi dice che stiamo facendo l'amore, che lui mi rivuole con sè e mi ama come prima, e che anche quando mi farà male, io saprò sopportarlo, perchè ora abbiamo pareggiato i conti, ora non potrò più tradirlo. Ora sono forte come lui. E mi dice che per farsi perdonare si sta lasciando condividere. Quella sorta di amore fermo, immobile, d'atmosfera, lo stiamo facendo in tre.

Il calore di quell'istante. Delle braccia lontane da me, nascoste, che rollano due sigarette. Il rumore di lente dita su una cartina. Il rumore ovattato della lenta lingua sulla colla. Un click infuocato. La carta che si consuma. Una mano che si avvicina alla mia, altre scintille, una sigaretta che è mia. Dei minuti che parevano ore, un mantra fatto di piccoli suoni leggeri e ordinati, nitidi. Una nenia che è in realtà senza suono e senza dolore.
Bacio la sua pelle. Poi mi lascio penetrare dalla prima boccata di quel fumo, l'ennesimo di quella notte, il primo con lui fra di noi.
Altri polmoni si alzano. Si abbassano in contemporanea ai miei.
Poi una voce, che viene da lontano. La mia voce preferita, più della sua.

"...Questo, Arianna... Questo è stato un silenzio. L'hai sentito? "
Sorrido. Scopro gli occhi dalle sue spalle. Ora vedo un corpo in carne ed ossa, una nuca contornata dai suoi lunghi capelli.
Lo so. Me l'ha detto stanotte mentre ti raggiungevo. Me l'ha detto ora, che mi avrebbe perdonata. Che sarebbe tornato. Me l'ha detto, che mi avrebbe regalato qualcosa di sè, con te.

Il mio silenzio. Il mio silenzio sereno, quello che non trovavo più da anni. Quello in grado di rendermi una persona migliore, di farmi concentrare, di farmi amare.

Il silenzio, finalmente è tornato e non mi fa più male. 
Un silenzio che mi accompagnerà in grandi cose, e che sarà le mie più grandi cose mai create.
Ssssshhh.

martedì 11 settembre 2012

E tu tornerai dall'estero, forse tornerai dall'estero.


Non volevo scrivere. Non avrei voluto scrivere fino a domani.
Perchè sono a Roma, sono tornata. Perchè ho fatto i test d'ammissione per la SSLMIT di Trieste. Perchè in quei giorni non ho parlato con nessuno, mi sono chiusa nel silenzio, e in questi ultimi tre giorni successivi avrei dovuto fare altrettanto, perchè il silenzio è buono. Il silenzio mi rende forte, certe volte.
E invece scrivo ora, perchè non ne ho più bisogno. Ora posso esplodere, sputare gridi e scattare in piccoli salti.
Un messaggio è arrivato, così, stamattina, improvvisamente. Una mia amica che mi avverte. La lista degli eletti è già su Internet. E' possibile immaginare il proprio destino un giorno prima di quello che pensavo.

E così l'ho saputo.
L'ho saputo, dopo un fallimento alla stessa facoltà, dopo una depressione, un aborto ed una relazione consumata, dopo che me ne sono andata all'estero, e Parigi in aprile mi ha salvata. Parigi mi ha detto che posso essere serena. E Parigi in luglio mi ha detto che posso essere migliore. Me l'ha data, questa marcia in più.

E così mi sono ritrovata all'inizio di una lista che mi sembrava infinita.

Mi hanno presa. Sono adatta, sono brava.
Mi hanno presa, l'ho saputo stamattina, e sono libera, e felice, e non vedo l'ora di cominciare ciò che sogno da anni.
E sono fiera di me, in queste ore. E penso alla mia personalissima versione del karma. Penso che me lo merito, dopotutto. Senza modestia, che la modestia mi ha fatto ammalare troppe volte.

 Sono fuori di me! Fuori di me!  Ho vinto!